Tempo di lettura previsto: 1 minuti
«Nel 1915 un violento terremoto aveva distrutto buona parte del nostro circondario e in trenta secondi ucciso trentamila persone.
Quel che più mi sorprese fu di osservare con quanta naturalezza i paesani accettassero la tremenda catastrofe. In una contrada come la nostra, dove tante ingiustizie rimanevano impunite, la frequenza dei terremoti appariva un fatto talmente plausibile da non richiedere ulteriori spiegazioni. C’era infatti da stupirsi che non capitassero più spesso.
Nel terremoto morivano infatti ricchi e poveri, istruiti e analfabeti, autorità e sudditi. Nel terremoto la natuta realizzava quello che la legge prometteva: l’uguaglianza.
Uguaglianza effimera. Passata la paura, la disgrazia collettiva si trasformava in occasione di più larghe ingiustizie.
Non è dunque da stupire se quello che avvenne dopo il terremoto, e cioè la ricostruzione edilizia per opera dello Stato a causa dei numerosi brogli, frodi, furti, camorre, truffe, malversazioni di ogni specie cui diede luogo, apparve alla povera gente una calamità assai più penosa del cataclisma naturale.
A quel tempo risale l’origine della convinzione popolare che, se l’umanità una buona volta dovrà rimetterci la pelle non sarà in un terremoto o in una guerra, ma in un dopo terremoto o un dopo guerra.» (Ignazio Silone, Uscita di Sicurezza)
Per legare all’attuale un semplice esercizio di contestualizzazione storica con il parallelo Aquilano, dopo quasi cento anni.