tecnologia

Chiacchierate sul web con paesani interessa(n)ti

Domenica scorsa, 18 Maggio, sono stato invitato dalla splendida associazione ContaminAzione (in questa pagina facebook i loro contatti e le loro attività) all’evento “Be smart, no abuse”, una chiacchierata intorno al web e all’uso che ne facciamo.

Durante l’evento c’è stata la presentazione dei risultati di un sondaggio completamente anonimo svolto dai ragazzi dell’associazione all’interno delle scuole di Luco dei Marsi. I risultati dell’indagine era molto accurati e la visione ha generato nel pubblico sentimenti contrastanti. Da un lato si comprendeva la velocità e la assoluta utilità degli strumenti di comunicazione sul web, ma dall’altro serpeggiavano alcune idee riguardo la disattenzione che inducono gli strumenti tecnologici, soprattutto nei ragazzi, ed i pericoli della vita online (legati soprattutto alla possibilità di essere contattati da malintenzionati).

Come rispondere a questi dubbi?
Al solito la risposta è nell’alfabetizzazione. Ma non si pensi ad una azione da rivolgere soltanto ad i giovani, anzi. Il punto focale è che queste problematiche vengono poste sempre con più insistenza ma ho potuto notare più volte come a porle siano sempre persone adulte; non che siano problemi marginali per i ragazzi, ma con la loro conoscenza del mezzo riescono facilmente a distinguere le situazioni pericolose e sanno quasi sempre come evitare i problemi.

Il punto su cui invece ho voluto riflettere con la sala della Società Operaia è invece relativo alla capacità di distinguere una buona informazione da una cattiva, di filtrare i contatti sociali in base al valore aggiunto e di saper utilizzare Internet per costruire la conoscenza.

Internet è un sistema di comunicazione di reti interconnesso nato proprio con lo scopo di favorire la comunicazione e la collaborazione, il cui fine massimo è la diffusione della conoscenza. Troppo spesso però l’utilizzo viene piegato a logiche diverse, prime tra tutte l’intrattenimento e la vendita commerciale.
Sono dinamiche naturali, ci mancherebbe, ma alle quali dobbiamo rispondere semplicemente con la responsabilità individuale ed una maggiore consapevolezza. Viene da chiedersi infatti se la nostra società sia in grado di comprendere le dinamiche del web e sappia come difendersi dal flusso continuo di informazioni, trovando in esse il modo di generare conoscenza (personalmente a volte mi ritrovo a “subire” l’informazione più che a cercarla, ne ho parlato tempo fa in questo post).

P.S. Capita spesso che da un’idea ne venga fuori un’altra, ed infatti la mia proposta ha generato qualche piccola reazione in sala, come si può vedere da questo post su Facebook. Con i ragazzi di ContaminAzione cercheremo di dare un seguito appena possibile.

tecnologia

Orwell in Athens, ovvero di democrazia e tecnocontrollo sul web

Una delle più forti dicotomie nel web (descritta dal titolo di un saggio del lontano 1995 di Wim B. H. J. Van De Donk, I. Th. M. Snellen e Pieter W. Tops) è quella che mette in contrapposizione gli esaltatori delle nuove tecnologie come strumento democratico con gli scettici che intravedono un pessimismo della ragione dovuto alle possibilità di controllo sociale sempre più ampio.

Di fronte ad una così forte dicotomia, il primo passo per prendere una posizione è capire le motivazioni dei due estremi gruppi.

Ed è quello che facciamo in questa presentazione, analizzando il comportamento di alcune piattaforme nella marcatura delle identità, svolta con una profilazione sempre più pressante e con alcune tecniche di analisi ai limiti della legalità. E’ giusto dire però che questa pratica è avallata dal nostro clic su “Accetta” che diviene a tutti gli effetti un consenso implicito.

Ma non è tutto così nero, perché esiste un risvolto della medaglia dato dagli open data, potenziale strumento di abilitazione e di partecipazione, che consentono l’aggregazione di servizi, il loro riuso e l’abilitazione di una mobilitazione collettiva senza memorizzare dati personali degli utilizzatori.

comunicazione

Tutto parte gratis, ma di gratuito non c’è niente

Siamo in una fase di sperimentazione per quanto riguarda la creazione di business online che rendano sostenibili le aziende, questo è piuttosto chiaro. La gratuità dei contenuti nel web ha raggiunto il punto critico: dopo i periodi iniziali di user engage, di accrescimento e fidelizzazione degli utenti della piattaforma per molte ex-startup è iniziata la fase di conversione economica del rapporto con gli utenti.

Tralasciando il caso dei social network come Facebook e Twitter, che hanno inserito nella timeline inserzioni pubblicitarie e tweet sponsorizzati senza sostanzialmente comportare variazioni di servizio, ci sono altri casi interessanti da analizzare che si intersecano tra loro.

Attualmente l’esperimento più in voga è quello del native-advertising, ovvero la generazione di post sponsorizzati che l’azienda appalta direttamente a terzi investitori.

Un caso che probabilmente farà storia è quello dell’Atlantic, che il 14 gennaio scorso ha pubblicato sul suo sito un articolo dal titolo “David Miscavige Leads Scientology to Milestone Year” sulle attività della setta religiosa fondata da Ron Hubbard. La propaganda era così spudarata da creare una serie di reazioni fortissime e mettere in cattiva luce il giornale, tanto che l’articolo è stato prontamente rimosso e sul sito dell’Atlantic è stato pubblicato un avviso di sospensione temporanea della campagna di pubblicità.

Un’ottima ricostruzione della vicenda è questa curata da A.Rossano sul sito dell’European Journalism Observatory.

Una strategia più ampia è quella usata dall’Huffington Post, che anziché utilizzare sponsorizzazioni per un singolo post lo fa per una sezione sponsorizzata, con chiari riferimenti.

huff-post-native

Sull’argomento storytelling ads c’è un’interessante conversazione tra David Carr  e Joe McCambley, il primo ad introdurre i banner nel lontanissimo 1994, in cui colpisce il suo scetticismo, anche nei confronti dell’introduzione dei famigerati banner di cui dice: “We were proud of that ad, but everything starts out good until we end up making it bad.”

Ma questo, come visto dai casi ambigui generati dalla sperimentazione nel giornalismo, si può estendere anche alla carta stampata: il tanto invocato giornalismo d’inchiesta, di qualità, non è mai stato sostenibile e per poterlo finanziare bisogna ricorrere a tecniche più pop di vendita e diffusione. Questo per dire che nessun business nell’informazione è definitivamente stabile, nessuna strada è sicura da percorrere.

 

Di gratuito non c’è niente, neanche l’impegno sociale

Caso ancora più discusso è quello del sito di petizioni online change.org, piattaforma di petizioni online che gestisce in media più di 25 mila petizioni al mese e i dati di circa 45 milioni di utenti. Wired America ha dedicato un’inchiesta a Change nella quale vengono approfondite le dinamiche di business della società americana, puntando il dito sul sistema di targetizzazione degli utenti.

Il meccanismo è: una volta sottoscritta la petizione iniziale, l’indirizzo email dell’utente viene girato da Change.org alla società che sponsorizza la petizione secondaria, che le paga un corrispettivo. Fatto ciò, i dati dell’utente non sono più coperti dai termini di privacy di Change.org, e la società che è entrata in possesso dei dati di un particolare utente può farne quello che vuole.

E’ in corso quindi una googlizzazione dei business model online, sempre più tendenti all’iper-personalizzazione e orientati a catturare l’attenzione dell’utente per profilarne i dati. Lo stesso Google, banalmente, fornisce un servizio di ricerca e recupera soldi privilegiando la ricerca con gli annunci degli inserzionisti seguendo un altissima profilazione dell’utente per consigliarlo al meglio.

Ma ovviamente questa non è l’unica strada percorribile, ci sono le sottoscrizioni, i club, il modello freemium, il due per tre, i discount e tutti i trucchi del commercio. Il legame tra attenzione e denaro è sicuro e affidabile.

Scetticismo diffuso

Leggendo l’articolo di Wired emerge come più che il modello di business si voglia criticare la stessa natura delle petizioni on-line. La chiusura di Clay Johnson, ex-consulente di Obama, è definitiva: “L’efficacia politica delle petizioni online è tutta da dimostrare, penso che possano accadere più cose contattando direttamente il tuo Congressman di riferimento.” Anche se, ammette, al momento Change.org sembra aver preso il posto della telefonata al politico.

Un commento leggermente protezionista, come ce ne sono mille altri, e che non farebbe alcun clamore se a farlo non fosse la testata che più di tutte è stata portatrice di innovazione negli ultimi decenni. Magari anche per loro vale quello che diceva McCambley: “Tutto parte per il meglio finché non si inizia a farlo male”.

tecnologia

Local Web

All’inizio dell’epoca di Internet (parlo per esperienza personale) collegarmi in rete significava aprire la mia curiosità al mondo e cercare quante più notizie possibili. Ogni cosa successa anche nell’altro capo del mondo, sembrava interessarmi tutto. Nel tempo iniziai a rendermi conto che non potevo avere accesso a tutto.
Per ovvie ragioni  iniziai a restringere il campo dei miei interessi, iniziai a cercare notizie ed eventi in zone contingenti la mia. Iniziai ad interessarmi sempre più del mio territorio, cercando di immaginare innovazioni possibili e piccoli movimenti utili. Iniziai a cercare persone nel mio territorio che avessero la mia stessa visione.

E questo processo è ancora aperto, ovviamente. Continue reading “Local Web”