Siamo in una fase di sperimentazione per quanto riguarda la creazione di business online che rendano sostenibili le aziende, questo è piuttosto chiaro. La gratuità dei contenuti nel web ha raggiunto il punto critico: dopo i periodi iniziali di user engage, di accrescimento e fidelizzazione degli utenti della piattaforma per molte ex-startup è iniziata la fase di conversione economica del rapporto con gli utenti.
Tralasciando il caso dei social network come Facebook e Twitter, che hanno inserito nella timeline inserzioni pubblicitarie e tweet sponsorizzati senza sostanzialmente comportare variazioni di servizio, ci sono altri casi interessanti da analizzare che si intersecano tra loro.
Attualmente l’esperimento più in voga è quello del native-advertising, ovvero la generazione di post sponsorizzati che l’azienda appalta direttamente a terzi investitori.
Un caso che probabilmente farà storia è quello dell’Atlantic, che il 14 gennaio scorso ha pubblicato sul suo sito un articolo dal titolo “David Miscavige Leads Scientology to Milestone Year” sulle attività della setta religiosa fondata da Ron Hubbard. La propaganda era così spudarata da creare una serie di reazioni fortissime e mettere in cattiva luce il giornale, tanto che l’articolo è stato prontamente rimosso e sul sito dell’Atlantic è stato pubblicato un avviso di sospensione temporanea della campagna di pubblicità.
Un’ottima ricostruzione della vicenda è questa curata da A.Rossano sul sito dell’European Journalism Observatory.
Una strategia più ampia è quella usata dall’Huffington Post, che anziché utilizzare sponsorizzazioni per un singolo post lo fa per una sezione sponsorizzata, con chiari riferimenti.
Sull’argomento storytelling ads c’è un’interessante conversazione tra David Carr e Joe McCambley, il primo ad introdurre i banner nel lontanissimo 1994, in cui colpisce il suo scetticismo, anche nei confronti dell’introduzione dei famigerati banner di cui dice: “We were proud of that ad, but everything starts out good until we end up making it bad.”
Ma questo, come visto dai casi ambigui generati dalla sperimentazione nel giornalismo, si può estendere anche alla carta stampata: il tanto invocato giornalismo d’inchiesta, di qualità, non è mai stato sostenibile e per poterlo finanziare bisogna ricorrere a tecniche più pop di vendita e diffusione. Questo per dire che nessun business nell’informazione è definitivamente stabile, nessuna strada è sicura da percorrere.
Di gratuito non c’è niente, neanche l’impegno sociale
Caso ancora più discusso è quello del sito di petizioni online change.org, piattaforma di petizioni online che gestisce in media più di 25 mila petizioni al mese e i dati di circa 45 milioni di utenti. Wired America ha dedicato un’inchiesta a Change nella quale vengono approfondite le dinamiche di business della società americana, puntando il dito sul sistema di targetizzazione degli utenti.
Il meccanismo è: una volta sottoscritta la petizione iniziale, l’indirizzo email dell’utente viene girato da Change.org alla società che sponsorizza la petizione secondaria, che le paga un corrispettivo. Fatto ciò, i dati dell’utente non sono più coperti dai termini di privacy di Change.org, e la società che è entrata in possesso dei dati di un particolare utente può farne quello che vuole.
E’ in corso quindi una googlizzazione dei business model online, sempre più tendenti all’iper-personalizzazione e orientati a catturare l’attenzione dell’utente per profilarne i dati. Lo stesso Google, banalmente, fornisce un servizio di ricerca e recupera soldi privilegiando la ricerca con gli annunci degli inserzionisti seguendo un altissima profilazione dell’utente per consigliarlo al meglio.
Ma ovviamente questa non è l’unica strada percorribile, ci sono le sottoscrizioni, i club, il modello freemium, il due per tre, i discount e tutti i trucchi del commercio. Il legame tra attenzione e denaro è sicuro e affidabile.
Scetticismo diffuso
Leggendo l’articolo di Wired emerge come più che il modello di business si voglia criticare la stessa natura delle petizioni on-line. La chiusura di Clay Johnson, ex-consulente di Obama, è definitiva: “L’efficacia politica delle petizioni online è tutta da dimostrare, penso che possano accadere più cose contattando direttamente il tuo Congressman di riferimento.” Anche se, ammette, al momento Change.org sembra aver preso il posto della telefonata al politico.
Un commento leggermente protezionista, come ce ne sono mille altri, e che non farebbe alcun clamore se a farlo non fosse la testata che più di tutte è stata portatrice di innovazione negli ultimi decenni. Magari anche per loro vale quello che diceva McCambley: “Tutto parte per il meglio finché non si inizia a farlo male”.