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Il concetto di gratis

70 milioni di utenti. Il giorno della chiusura di Napster, nel Luglio 2001, dopo appena due anni di attività si potevano contare 70 milioni di utenti connessi sulla piattaforma di file sharing. Numeri stratosferici per l’epoca.

Ricordo ancora personalmente il rumore del modem in connessione, le lunghe ore per scaricare singoli mp3 trattati come reliquie, l’accesso ad una quantità di informazione che sembrava infinita e promettente per le possibilità di un ragazzo di provincia curioso.

Personalmente dopo i primi momenti di difficoltà ed un profondo odio per i Metallica (n.d.r.  che poi sarebbe cresciuto ancora più nel  1996-1997 dopo l’acquisto di Load e Reload originali, maledizione) trovai alternative in WinMX, Gnutella, dopo un’annata circa arrivò eMule e bene così.

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L’Internazionale ha reso disponibile un documentario del New York Times di 12 minuti sottotitolato in italiano che ripercorre i passi principali del fenomeno Napster e dell’impatto sul mondo della musica, sulle vendite di CD e sui portafogli delle case discografiche.

Ad un certo punto Ali Aydar, lo sviluppatore che ha aiutato Shawn Fanning nello sviluppo di Napster, si pone anche un dubbio etico sulla giustezza dell’azione. Ancora oggi nella sua bio su Twitter c’è una traccia, un cenno individuabile nella frase: “accidental copyright law expert”. Esperienza acquisita a causa delle lunghe cause giudiziarie in cui Napster è stata coinvolta, non v’è dubbio.

Non sapevano bene cosa stessero facendo in quel momento, non c’era tutta la retorica dell’innovazione dei giorni nostri, c’erano soltanto degli spazi vuoti ed un mezzo aperto come Internet di cui approfittare per occuparli.

Oggi gli spazi sono molto ridotti, le barriere all’ingresso si sono fatte più alte, la possibilità di impatto è diminuita, ma forse abbiamo anche smesso di pensare a cose da fare gratuitamente. Le comunità open-source esistono ancora ma il racconto tecnologico va da tutt’altra parte, le tecnologie continuano a rendere possibili iniziative e cambiamenti ma vengono incanalate in conflitti di business e/o guerre geopolitiche per la rete.

Ed io mi metto a vedere un video sul New York Times e sorrido pensando a cosa sono stati capaci di fare pochi ragazzi con una connessione ed una seria passione per la condivisione.  Senza troppe parole prima, soltanto con righe e righe di codice “che hanno fatto il botto”.

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Orwell in Athens, ovvero di democrazia e tecnocontrollo sul web

Una delle più forti dicotomie nel web (descritta dal titolo di un saggio del lontano 1995 di Wim B. H. J. Van De Donk, I. Th. M. Snellen e Pieter W. Tops) è quella che mette in contrapposizione gli esaltatori delle nuove tecnologie come strumento democratico con gli scettici che intravedono un pessimismo della ragione dovuto alle possibilità di controllo sociale sempre più ampio.

Di fronte ad una così forte dicotomia, il primo passo per prendere una posizione è capire le motivazioni dei due estremi gruppi.

Ed è quello che facciamo in questa presentazione, analizzando il comportamento di alcune piattaforme nella marcatura delle identità, svolta con una profilazione sempre più pressante e con alcune tecniche di analisi ai limiti della legalità. E’ giusto dire però che questa pratica è avallata dal nostro clic su “Accetta” che diviene a tutti gli effetti un consenso implicito.

Ma non è tutto così nero, perché esiste un risvolto della medaglia dato dagli open data, potenziale strumento di abilitazione e di partecipazione, che consentono l’aggregazione di servizi, il loro riuso e l’abilitazione di una mobilitazione collettiva senza memorizzare dati personali degli utilizzatori.

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#OccupyGezi ed i metodi di informazione (veloce)

Tra gli argomenti della crisi dell’informazione, da più parti si indica come principale colpevole l’approccio mainstream delle TV e dei giornali, diventato menzognero, distante dalla verità.
Ho provato a ragionarne durante i giorni di #OccupyGezi, sono stato per giorni a sentire questa tesi rimbalzare tra le voci a cui sembrava ovvio che la lentezza del mostro televisivo fosse sinonimo di inesattezza. E che quindi la rete fosse più veloce, di conseguenza migliore. Che nei giorni delle proteste di Istanbul è stato declinato in trovi tutto su Twitter.
Senza mai esserne pienamente convinto.

In un ottimo articolo su DoppioZero di Tiziano Bonini ragionando sull’infosfera turca si segnalano tre punti.

Primo: mancanza di una prospettiva storica

In realtà questa storia delle “rivoluzioni di Facebook” è stata finora molto banalizzata, discussa, sottostimata o sovrastimata, ma mai analizzata a fondo, se non in contesti accademici.
Non credo esistano rivoluzioni di Facebook ma “rivoluzioni” che, come dei software, girano su hardware (tecnologie di comunicazione) differenti. E, metaforicamente, ogni miglioramento dell’hardware si ripercuote sulla velocità del software.

Guardando qualunque evento di protesta e di mobilitazione nel corso della storia è facile trovare una corrispondenza tra media e metodi di diffusione e coinvolgimento dei cittadini, da Lutero in avanti. Senza correre troppo indietro con gli anni, basta citare questo pezzo a proposito delle magiche proprietà di transistor e onde radio:

“Le cose andavano troppo di fretta perché i giornali riuscissero da soli a calmare quella fame di conoscenza, tanto più che il maggio del ’68 si svolse soprattutto di sera e di notte. Screditata la televisione, superati i giornali dalla rapidità degli avvenimenti, buoni giusto per essere degustati al mattino, a colazione, come verifica: restava la radio” (Evelyne Sullerot, Transistors e barricate, 1968)

I protestatori possono avere riparo in questa casa. Interno: 6 fonte: http://imgur.com/a/gKAsu

Secondo: il caso di Istanbul 

Quello che ha reso caso di studio interessante la protesta egiziana sta nell’uso “tattico” dei social network. Ovviamente, siamo ancora troppo vicini all’evento in termini temporali e troppo distanti dagli eventi geograficamente, ma possiamo affidarci al racconto della sociologa turca Zeynep Tufekci, che la definisce una protesta “alimentata dai social network”, in quanto fondamentali nella mobilitazione rapida e veloce delle persone e nella diffusione rapida delle informazioni.

La notizia di una carica della polizia se scritta in un tweet localizzato è una fonte di informazione per chiunque si trovi nel mezzo della protesta. Neanche la radio, nei tempi delle proteste studentesche sessantottine, poteva avere una velocità di propagazione paragonabile (le radio in quegli anni non erano degli strumenti maneggevoli).

E, di più, quando il premier Erdogan definisce Twitter “la più pericolosa minaccia alla società”, alcuni gruppi di cittadini hanno trovato il modo di aggirare il temuto embargo digitale con proxy e VPN. Questo a dimostrazione di una capacità di utilizzo del mezzo sorprendente e straordinariamente veloce.

Reuters, Osmn Orsal

Terzo: non una “social media revolution”

Enfatizzare il ruolo dei social media è affascinante, come ogni cosa nuova e che promette miracoli, ma inesatto. Non è la protesta dei social media, ma la vittoria di un modello di comunicazione su altri. La mancanza di leadership notata nel movimento è sinonimo di una comunicazione decentrata, non controllata, e come tale composta da diverse anime.

Diverse anime che, come accade sempre più spesso ed anche da noi, sono unite soltanto dal dissenso e dalla mancanza di una chiara rappresentanza. Ma non è comunque una rivoluzione della “Rete” o dei “Social” (che scriverli in maiuscolo è già un errore, a dargli una validità di entità o personale che non hanno), ma di un metodo di narrazione e di comunicazione.

..it will be tweeted?
..it will be tweeted?

Quello che emerge da una analisi dell’infosfera è che non c’è inesattezza, né mancanza di verità o complotti informativi nella gestione dei media del caso #OccupyGezi. C’è un modello nascente di comunicazione molto più frammentato e veloce, al quale modelli più vecchi di comunicazione non riescono ad adeguarsi.

Ma non è la prima volta che succede nella storia e reagiremo anche a questo. O magari cambieremo idea di fronte ad un nuovo mezzo di comunicazione.

Per approfondire: La traduzione di un articolo di Zeynep Tufekci su Valigia Blu http://www.valigiablu.it/proteste-e-social-media-unanalisi-da-jan25-a-geziparki/

More image: http://imgur.com/a/gKAsu